Antologia Critica

umberto

(in ordine cronologico)

Alfonso Gatto 

Insistendo sulla propria ricerca, Mastroianni intensifica il suo istinto di verità, oggiandolo su un’attenzione sempre più vigile e patita della forma, infittendo i nessi e i legami dei volumi, acutizzando i punti sensibili delle linee e dei profili, ma come assorbendoli in quel movimento ondoso in cui egli sembra che avvolga i suoi corpi, aderendovi quasi con tutta la mano piena, affinché le durezze e le morbidezze del chiaroscuro echeggino nel palpito stesso della vita e ne traggano l’illesa impressione. Insistiamo su questo movimento ondoso della scultura di Mastroianni e non per compiacerci della nostra immagine, ma per dare la realtà di quel mordente plastico che è dentro, profondo in ogni opera dell’artista come un pugno di vita che stringe in sé l’integra statura dei corpi e dei volti che non hanno altro appoggio descritto e altra verità all’infuori di questa energia che li anima e li frena insieme in una sostanziale purezza e in una lineare purità. È un segno da scultore vero quest’intimità che nelle opere di Mastroianni non va mai a scapito della grandezza e della mole, questa, sensibile prontezza plastica che non improvvisa morbidezze o luminescenze più o meno pittoriche, ma vuole consistere nello sbocco unico di tutti i ritmi interni dei volumi, nel loro finale assestamento della forma. Scendendo e addentrandosi nelle intime relazioni del modellato, raggiungendo chiusure sempre più assolute, bloccando le forme, Mastroianni è giusto che arrivi con consapevolezza a risultati di grande astrazione plastica. Egli ha ugualmente compenetrato il proprio istinto e la propria progressiva cultura del suo ardente desiderio di saldare, di connettere quel ritmo della scultura che in tante altre esperienze di artisti a lui contemporanei sembra disperso. E ha fede nell’autonomia della scultura, vivificata da tutto il peso e da tutta l’ansia del proprio colloquio e del proprio furioso svolgimento: egli vuole che la sua scultura attinga lo spazio per scatto proprio, con un senso di levata che sia anche un generoso riconoscimento di vita. Perciò a noi sembra che Mastroianni sia, tra quei due o tre scultori succeduti a Marini e a Martini, quello che più si appella alla libertà di un mondo umano, alla vita necessaria a pienare lo stile dei suoi freni tutti mordenti. Mastroianni vive con amore in questa dialettica, soprattutto per ridurre a un problema la sua scultura, per non modellare, come molti fanno, un problema. A. Gatto, Umberto Mastroianni, in “Il Politecnico”, Milano, 30 settembre 1935

Filippo De Pisis

Umberto Mastroianni è artista di grande talento, certo tra i migliori giovani d’Italia. Di lui mi piacque subito e senza sapere che fosse sua, in una mostra a Torino, una sua figura di atleta, in piedi. Pure senza la testa e le braccia, questo pezzo di scultura vive e respira nel senso migliore della vita plastica. Anche una testa di fanciullo, un po’ troppo lisciata forse, con un compiacimento della pura superficie che può essere pericoloso per uno scultore, “è cosa delicata assai”. Un ritratto di uomo giovane esposto alla Biennale veneziana, con una fattura un po’ arida che mi fa pensare ad uno scultore gotico che si fosse studiato di copiare una scultura romana. In Mastroianni (e non sapremo lodarlo abbastanza per ciò) la forma e per meglio dire il senso della forma è sempre rispettato anzi venerato. Quando la poesia gli urge, si sente in cuore. Troverà la sua piena espressione in una forma davvero originale. Egli sarà un grande scultore. Filippo De Pisis, in “Il Dado”, Torino, 1945

Leon Degand

Ciò che subito colpisce nell’arte di Mastroianni è un perfetto accordo, vissuto organico, indissolubile, tra proporzioni ed espressione, tra disciplina e urgenza creativa. Questa unità è talmente sentita dall’artista da arrivare a manifestarsi con la più rara chiarezza. Nulla di confuso nelle sue sculture. Le masse offrono senza incertezza le loro superfici all’ombra o alla luce e si legano tra loro con non minore precisione. Basta seguire i piani conduttori per percorrere senza sforzo la strada logicamente tracciata dal pensiero dello scultore e cogliere la sua coerenza in tutti i particolari. Plastico, Mastroianni, lo è pure nel suo modo lucido e, mi sembra, sensuale di convincerci del peso delle masse – indipendentemente da quello del materiale – del peso delle loro forme sospese, del peso della loro staticità o del loro slancio carico e potente. Il suo curioso dinamismo è forse barocco, per il gioco d’opposizione di forze e per la sua complessità ma spoglio di ogni effetto inutile. E nello stesso tempo, che strano senso di equilibrio, spesso spinto fino al disprezzo delle leggi di gravità! L. Degand, dal catalogo della mostra tenutasi alla Galérie de France, Parigi, 9 novembre 1951

Gino Severini

L’esposizione che questo scultore ha fatto a Parigi, alla “Galérie de France”, è stata più e meglio di un “successo”: è stata l’affermazione di una posizione o atteggiamento riguardante la scultura come tale riportata alle sue proprie e invarianti esigenze. Ogni opera d’arte conforme alla sua verità e quindi autentica, deve essere ammessa, e quindi noi ammettiamo tutto ciò che di tale base estetica può reclamarsi, pur venendo da individuali sviluppi (spesso da deviazioni), di quanto intesero di fare degli scultori come Brancusi e Archipenko. Sul lavoro dell’uno o dell’altro si poteva edificare una “scultura” (come era nelle intenzioni di Boccioni), ma invece di sviluppare il Iato estetico della loro attività, si entrò, con il Dadaismo e con il Surrealismo, in un campo più propriamente etico, con deliberato proposito di evadere dal campo dell’arte. Da Arp a Calders si è così creato un ramo che è spuntato sull’albero maestro della scultura, ed alcuni lo prendono per scultura, perché si tratta sempre di forme nello spazio, ma non è scultura. Se veramente dovesse chiamarsi scultura, i vasi e le coppe greche, costruite secondo i principi armonici del famoso rapporto algebrico con l’intenzione di fare un oggetto bello in sé, sarebbero anche scultura. Questi “inventori” (forse è questa la parola giusta), mettono tutte le loro possibilità creative in “costruzioni” (ecco un’altra parola giusta) che sono anch’esse belle in se stesse e non esprimono, e significano altra cosa che se stesse. In questa linea si espressero anche Laurens, Liepchik, Zadkine. Così ci sono oggi due direzioni, ambedue secondo me, autentiche. Non è il caso di far qui un esame profondo di queste due tendenze; la mia riflessione ha per scopo di definire il più possibile la posizione estetica di Mastroianni, che io vedo seriamente basata sulla linea della scultura propriamente intesa, riportata, come ho detto alla integrità e purezza delle origini. Questo suo atteggiamento, che molto chiaramente risultava dalle sue opere, ha dapprima sorpreso il mondo artistico parigino, ormai abituato ad atteggiamenti sempre intelligenti, è vero, ma troppo spesso dettati da un desiderio di conquistare con la sorpresa quel successo che il valore intrinseco dell’opera difficilmente ottiene. Ma poi le menti e le anime degli artisti si arresero all’evidenza e si lasciarono conquistare. Dopo tutto dovettero ritrovare nel loro collega italiano le loro stesse ansie, gli stessi tormenti e le stesse intenzioni nelle quali impegnano tutte le risorse dello spirito per essere se stessi, per così dire al di sopra di se stessi: e crearsi un mondo nel quale il reale e l’immaginativo si possano fondere in una platonica e surreale armonia. G. Severini, Mastroianni, scultura pura, in “La Fiera Letteraria”, Roma, 15 giugno 1952

Frank Elgar

Mastroianni è uno scultore di quelli che nel mondo attuale indirizzano i loro sforzi nella stessa direzione, tendono a un ideale comune, pronunciano gli stessi rifiuti e le stesse adesioni. In Italia è il più valente e il più autentico rappresentante di quella statuaria moderna che ha ritrovato il significato di peso, di massa, di volume, che ha riacquistato il gusto della semplicità del monumentale e dell’universale, che ha l’ambizione di creare forme nuove piuttosto che di conservare le antiche. Una scultura che vuole liberare dalla materia l’architettura interna, lo slancio vincolato d’una figura di pietra o di metallo, l’essenza stessa dell’oggetto dell’essere. Frank Elgar, presentazione nel Catalogo della Galleria d’Arte e Lettere, n.3, maggio-giugno, Torino, 1953

Waldemar George

Come Duchamp-Villon e come Laurens, Mastroianni difende lo spirito mediterraneo ed egeo. La scultura d’oggi si evolve da forme naturali. I suoi punti di mira paiono essere la botanica, la geologia, tanti ritmi cosmici… e quando l’artista non subisce il fascino delle meraviglie della scienza, finisce nell’inferno del deserto del mondo e immagina nuovi idoli. Mastroianni ha inventato il suo antropoformismo, egli vuole l’Olimpo e Delfi. Ama la densità del volume; le sue forme poliedriche evocano frontoni di templi antichi e trasforma di continuo la sensazione dello sforzo, e il movimento fa parte integrante della sua composizione. Waldemar George, in “ Prisme des Arts”, Parigi, 1956

A.M. Hammacher

Mastroianni ci costringe a pensare cosa è diventata dopo Boccioni la tradizione futurista, e sviluppa il dinamismo e il movimento, mentre lo spazio si determina in angolazioni urtate, e si carica di emozione, dove il grande volume gioca tutte le sue risorse nella forza di una sintetica composizione; sono le masse che affermano, e con vigore supremo egli le supera; nel tumulto contrastato dell’aperto e del chiuso, del movimento e del contro movimento, del fluido e dell’angoloso crea il suo mondo di forme spaziali, moderne e barocche, che nel loro ritmo potente fanno pensare ancora al sempre giovane concetto di dinamismo; con sempre presente un senso di “infinito”. A.M. Hammacher, dal catalogo della mostra tenutasi al Palais des Beaux-Arts, Bruxelles, 1957

Umbro Apollonio

Mastroianni rivive quel momento in cui i volumi si conformavano quali ritmi che forzavano la cavità spaziale circostante, e ne circoscrive l’energia, con maggiore risalto mediante forme prolungate, di slancio più evidente: egli ricerca una potenza centrifuga […]. Mastroianni non guarda a uno spazio fisico, come non si rimanda a una conversione esistenziale degli attributi plastici: preleva le sue forme da una attenta meditazione delle formule instaurate dai maestri della plastica moderna e le sfrutta in un organismo drammatico che è feudatario anzitutto di un sentimento attivo della vita contemporanea. Rivivescenze futuristiche o cubistiche non impacciano l’esplicarsi della sua personalità, anche se questa si riallaccia a quegli antecedenti. U. Apollonio, Tensione e spazio di Mastroianni, in “Quadrum”, giugno-dicembre 1958 Giuseppe Marchiori La fortuna di Umberto Mastroianni, come molto spesso accade, è decretata dagli stranieri più che dagli italiani. E il fatto va considerato con attenzione. Jean Cassou dice che fu subito colpito “dall’energia” delle opere di Mastroianni e che pensò subito a Boccioni, non perché vi riconoscesse un’influenza diretta, ma in quanto gli parve di poter stabilire tra i due “un’analogia di ordine spirituale”. I bronzi di Mastroianni sembrano frammenti di sculture barbariche, modellati con forza, ritagliati nello spazio come forme massicce, e pur animate da un rozzo e sommario, ben diverso dalle “espansioni” dinamiche futuriste. Mastroianni possiede un vigoroso istinto plastico, che rivela le origini antiche, ma che si risolve, al di là della rappresentazione, in mera espressione di elementi organici articolati in misteriose strutture. Cassou dice di vedervi “un grande combattimento, amoroso o ostile, una scena. Una scena magnifica e appassionata, cui lo spettatore si sente trascinato a partecipare girandovi intorno, considerandone da ogni lato l’evidenza”. Tutto sembra chiaro in questo “disegno” di forme in contrasto: e il significato e lo scopo. Gli stranieri sanno leggere meglio di noi l’opera di Mastroianni: sono affascinati dal senso monumentale di queste sculture, che si distinguono dai “mobiles” e dagli oggetti informali, dalle composizioni meccaniche e dalle pietre graffite, come fatti di una cultura diversa. G. Marchiori, la XXIX Biennale di Venezia, in “Art International”, Zurigo, n. 6-7 settembre-ottobre 1958

Giulio Carlo Argan

Uno dei temi dominanti nella scultura di Mastroianni è proprio l’antagonismo di forma e spazio. Si può dire che la forma nasce dalla distruzione dello spazio, raggiunge la propria pienezza quando ha fatto intorno a sé il vuoto, quando cessa di reagire alla luce e all’atmosfera, al vicino e al lontano, e determina da sé con il ritmo sicuro dei volumi e dei piani, le proprie condizioni di luce e di atmosfera, le proprie condizioni prospettiche. Non accetta leggi le detta. È una realtà dura e prepotente, che non vuole lasciarsi intaccare e dissolvere; un nucleo vivo e irriducibile, un nodo di forze in azione. L’impulso di moto non è dinamismo meccanico, né misteriosa corrente di energia, né invisibile forza cosmica: al contrario, esso è sempre estremamente localizzato e preciso, ha nella forma plastica le sue cause e i suoi effetti visibili. Nasce sempre dalla rottura di un equilibrio, dagli improvvisi sbilanci e rilanci delle masse: e dall’equilibrio che si spezza, e che dà luogo al prorompere delle forme e all’enfasi più impetuosa del “più grande del vero”, è appunto l’equilibrio della persona umana in una conforme natura, il tradizionale equilibrio di spirito e materia. E chi, se non proprio l’uomo moderno, ha volontariamente spezzato quell’equilibrio, ha scosso la materia dall’antico letargo, l’ha scatenata e ridotta a energia? Dobbiamo dunque credere che la scultura di Mastroianni abbia anch’essa il suo apologo, la sua tesi? Non sono cose, si sa, che si chiedono agli artisti: ma è pur certo che, tra gli scultori contemporanei, Mastroianni è uno dei pochissimi che si sia proposto di riflettere nella sua opera figurativa le “abitudini morali” degli uomini del suo tempo, di dare forma agli ideali, o anche soltanto agli idoli, della civiltà in cui si vive […]. Mastroianni, e proprio per il suo profondo e mai smentito legame ai contenuti umani della scultura, ha avvertito che non già l’”artificiale” trionfa sul “naturale”, ma le forze autentiche dell’animo umano sulle forze della natura; ha sentito che il modo di atteggiarsi dell’uomo moderno di fronte al reale è ancora un modo romantico, come è romantico il fondo comune della cultura e della civiltà moderna. Così, non soltanto ha potuto fare della scultura moderna senza uscire dalla più remota e più nobile tradizione plastica; ma riscattando e chiarendo il confuso romanticismo futurista ha riaperto, non solo alla scultura, una via interrotta e quasi dimenticata, ma tutt’altro che secondaria, della cultura figurativa europea. G.C. Argan, Mastroianni, Edizioni del Cavallino, Venezia, 1958

Jean Cassou

Queste opere sono prodotte da una potenza interiore, che sgorga dall’istinto organico, attraverso lo spazio si espande come un desiderio di conquista. Ogni forma, nascendo da questo impulso, prende possesso di sé, si afferma con vigore prodigioso, si concretizza e si proietta, si domina rigorosamente, e si impone per opporsi infine all’altra forma, che a sua volta nasce e la contraddice. Così si sviluppa tutta un’energetica per comporre una drammaturgia. Scultura emotiva in cui, veramente, accade qualcosa. Cioè una grande lotta, d’odio o d’amore, una scena. Una scena magnifica e appassionante, in cui lo spettatore, girandovi intorno, si sente trascinato a parteciparvi e a vederne da ogni lato I’evidenza e la complessità di questi gesti e di questi movimenti ma non vi porta alcuna oscurità poiché tutto è chiaro. Tutto è fatto e diventa commento. J. Cassou, dal catalogo della mostra personale tenutasi alla XXIX Biennale di Venezia, giugno 1958

James Fitzsimmons

A proposito delle opere di Mastroianni io oserei dire che la sola cosa su cui tutti potrebbero essere d’accordo è il fatto che esse si rivelano ambiziose e intimamente contraddittorie; due elementi, questi, che depongono a suo favore. Siamo stanchi di artisti il cui unico programma è quello di essere, di essere se stessi e di esprimere se stessi, quando probabilmente non hanno nulla da esprimere. Ci siamo stancati di un’arte puramente retorica. Mastroianni mira in alto. Aspira a creare opere che in modo adeguato drammatizzino la natura essenzialmente dialettica (anche se sovente soffocata) di ogni rapporto umano e di ogni struttura naturale. […] In un’epoca nella quale per molti fra i migliori artisti vale una classificazione fra intellettuali e passionali, Mastroianni riesce a portare nella sua opera le due qualità. J. Fitzsimmons, Space and the Image in Art, in “Quadrum”, n. 6, Bruxelles, 1959

Lionello Venturi

Ancor giovane, Umberto Mastroianni è uno scultore celebrato in Italia, in Francia, in Belgio, in Olanda. […] La sua origine è in Boccioni e nel futurismo italiano, più che nel cubismo francese, malgrado l’azione che questo ha avuto ai suoi tempi su tutta l’arte europea […]. Il nuovo futurismo di Mastroianni si differenzia assai da quello del 1910 per la coscienza che i grandi scultori del nostro secolo hanno apportato, coscienza di linea, di plastica, di sintesi, di forma-colore. E in questo senso si può dire che Brancusi, Laurens, Zadkine, Moore, Arturo Martini siano tutti entrati nell’esperienza di Mastroianni. Ma la sua cultura si può immaginare storicamente piuttosto che sorprendere nelle sue opere, tanto viva risulta l’impronta di una personalità che nella passione creatrice brucia ogni elemento estraneo. Un’altra ragione del successo di Mastroianni consiste nel fatto che la sua forma, pur essendo essenzialmente astratta, ha una tale carica di umanità da dare spesso il senso del figurativo. I suoi sono uomini e donne diversi da quelli che conosciamo nella realtà, ma sono portati da un vento di passione così differenziato, così individuato, che riesce facile d’indovinare l’immagine umana dietro il paravento artistico. V’è tuttavia un altro aspetto nell’arte di Mastroianni che è necessario di commentare, tanto più che data da pochi anni e che perciò non è stato ancora illustrato dalla critica. Si tratta del colore che si è insinuato nella plastica e la trasforma. Da molti segni si può dedurre che le venerabili divisioni di pittura e scultura hanno perduto la loro realtà nella civiltà moderna. L’attenzione punta sull’arte senza molto curare le tradizioni, le tecniche, le cosidette leggi delle singole arti. Da quando l’impressionismo s’impone al gusto degli artisti la scultura cercò di divenire pittorica, curando dapprima l’epidermide e poi entrando sempre più nella struttura. Lionello Venturi, presentazione nel Catalogo della Kleeman Gallerie, New York 1960

Michelangelo Masciotta

[…] A Mastroianni interessa non l’oggetto nel suo guscio, ma la sua vita, la sua capacità di espansione nel tempo, nello spazio e – diciamo pure la parola proibita – nel sentimento. Egli cerca di cogliere l’aspetto apparente della realtà e l’impulso che lo determina e di stabilirne il rapporto perché da quel rapporto nasca un altro rapporto e un altro ancora; ma sono sempre rapporti collegati materialmente, ancora nell’ambito dei sensi. Nasce intanto la prima forma della scultura, che ritiene quasi tutte le qualità del reale. Le varie parti hanno un nesso evidente, obbediscono a una logica costruttiva. È nato un solido entro uno spazio determinato, misurabile anche con i mezzi della scienza antica. Ma una forma di Mastroianni non è che l’avvio a un’altra forma. La nuova opera si configurerà non per un processo meccanico di riduzioni o di aggiunte, ma per la necessità di scoprire le ragioni che hanno suscitato quei rapporti, che non sono provvisori, che non sono destinati a scomparire, ma che anzi sono le premesse, i fondamenti di una nuova indagine. La scultura già compiuta resta come uno schema, e talvolta lo schema è cosÌ organicamente strutturato che vien voglia di isolarlo, di non toccarlo più, di renderlo inalterabile, come per sottrarlo ad ogni possibile contaminazione. Michelangelo Masciotta, in “Cinque scultori d’oggi”, Minerva Artistica, Torino 1960

Nello Ponente

La validità del percorso artistico di Mastroianni, è identificabile in quella lontana partenza di scultore abile e attento al mestiere, ai problemi inerenti a una tecnica, ma capace altresì di capire che la tecnica non è fine a se stessa. Partecipe del proprio tempo e della propria storia, immerso in tutte le contraddizioni e in tutte le affermazioni del presente, come un buon artista del resto Mastroianni ha tuttavia affermato principi e trovato soluzioni che diversificano la sua da ogni altra esperienza. Aver saputo riscattare, nella dimensione stilistica della sua opera, l’effusione passionale e drammatica, alla quale ha conferito nuovi e reali significati, vuol dire aver dato un esempio di originalità e soprattutto, una validissima indicazione. N. Ponente, Mastroianni, Edizioni D’Arte Moderna, Roma, 1963

Salvatore Quasimodo

Nello scultore laziale i momenti negativi e positivi dell’idealismo sono già fusi all’inizio; non si tratta per lui di procedere nell’esclamazione enfatica, retorica, o nel metallico disumanizzato della macchina per risolvere il binomio romantico-classico. Di classico in Mastroianni c’è la fiducia nella formazione della materia per l’intervento dello spirito. Di romantico, l’identica misura di “tempesta” che afferma la mente come emozione, l’uomo come anima, nella fase della creazione. Mastroianni è un grande scultore di oggi nel senso immobile della parola, e moderno non come avvolgimento nella spirale crepuscolare. La sua lotta per superare il sicuro comando espressionistico (la luce come elemento della statua) è breve. Nel dopoguerra la convinzione che gli oggetti della terra sono se stessi perché danno vita a un’idea o un sistema (e non in funzione del contrasto luce-ombra) diventerà la sua poetica. Il chiaro e lo scuro sono se mai, un intervento della natura su un oggetto della natura… S. Quasimodo, Mastroianni, “Il ritratto”, Ed. S.M. Rosso, Biella, 1964

Maurizio Calvesi

Non c’è niente di male a dire che l’istinto plastico di Mastroianni, la sua robusta intuizione delle masse e dei piani, è un’eredità italiana. Dicendo questo, anzi, avremo anche individuato il pericoloso mito che a queste qualità plastiche è di solito collegato, e che Mastroianni ha avuto invece il merito di tenere lontano da sé fin dal principio: il mito del Rinascimento; quel mito anacronistico che, quando Mastroianni cominciò a lavorare in un senso moderno, era ancora largamente in voga. Al mito del Rinascimento gli artisti italiani tra le due guerre hanno reagito, quelli che hanno reagito, all’incirca in due modi: un modo è stato quello di appellarsi al suo antidoto più storicamente diretto, appropriato e caustico: il barocco. E il modo di Scipione, ad esempio, ma anche quello di un Fontana, di un Leoncillo, o di un Vedova, per ci tare un artista che mi sembra abbia qualche affinità di temperamento e di posizione con Mastroianni. Un altro modo è stato quello di castigare il mito, riducendolo semmai al suo originario scheletro umanistico, al suo nocciolo razionalistico, e di opporre all’enfasi di un linguaggio paludato la puristica severità di una rigorosa analisi grammaticale; ed è stata la via di un Magnelli, dell’astrattismo più geometrizzante, e anche del postcubismo. Direi che la scultura di Mastroianni, durante l’arco del suo sviluppo, partecipa di entrambi le esigenze e dello spirito di entrambi le rotture: partita, come scrive giustamente Ponente, da un momento di “anatomia della forma”, essa è venuta sempre più riguadagnando alla scabra e compressa forza delle sue strutture quell’ampiezza di movimenti, quell’agitazione di masse, quel fermento sempre più ricco e pieno di luci, di materie e di colori, che costituisce, oggi, il nucleo barocco della sua visione. Barocco, nel senso non solo di esuberante e sana vitalità che questa parola può evocare, ma anche nel senso di un superamento dinamico quale nel concetto di barocco è implicito, dei limiti spaziotemporali di quella visione vietamente antropocentrica cui ancora troppa parte dell’arte che presume di essere d’avanguardia è sostanzialmente ancorata. Non un ritorno al barocco, ma un appello al barocco, e al lato più attuale non del suo misticismo ma della sua avvincente ideologia bruniana, per il possesso di una dimensione che sia il prolungamento e non la prigione della nostra esperienza. Maurizio Calvesi, “L’Europa Letteraria”, Roma, 1964

John Gruen

Un’abbagliante esibizione di potenza e sostanza si trova in una scultura che strappa, grida, scoppia, pur essendo contenuta in se stessa continuamente. Massicce estrazioni di bronzo sono fissate saldamente nel figurativo, e abbozzi di torsi e di figure piene emergono in ogni esempio. C’è una severa forza e grandiosità nelle forme e nelle figure che, in ogni momento, fanno in modo che anche la mente si arresti, così come l’occhio. John Gruen, “The New York Times”, 15 febbraio 1964

Stuart Preston

L’energia che forma queste opere esplosive sembra venire dal profondo di loro stesse quasi quanto in una composizione michelangiolesca di figure combattenti, come in un barocco del Bernini, come nell’eccitabilità di uno scultore futurista come Boccioni. Un’esuberanza simile è parte del temperamento artistico italiano, e non importa in quale diverso modo si manifesti attraverso gli anni. Mastroianni stesso deve amare il bronzo come mezzo di per sé. Ci combatte, lo irruvidisce, lo plasma, cercando costantemente di sopraffarlo come se esso a sua volta potesse reagire. S. Preston, “The New York Times”, 15 febbraio, 1964

John Gruen

L’opera è carica di elettricità. Oggi egli ritorna alle sue influenze primitive, quelle del classicismo, ma questo avvicinarsi ad una immagine strettamente figurativa passa via con un tale dinamismo, un tale ritmo, una tale poderosa grandiosità interna ed esterna che ricorda Donatello degli ultimi anni, ancora più progredito. La fusione delle forme e dei volumi sembra sprizzare non tanto da un concetto unitario (che ovviamente c’è) quanto da un’impressione di produrre una scarica improvvisa ogni qual volta l’occhio vi si posa. Ed è questa qualità esplosiva che dà a questi lavori la loro straordinaria vitalità, e li rende partecipi della lotta delle forze distruttive e minacciose del nostro secolo. John Gruen, “The New York Times”, 23 febbraio 1964

Jean Cassou

L’arte dello scultore Mastroianni mi ha sempre fatto pensare ad una Italia nera e pesante, non quella della deliziosa linea melodica, ma quella dei metalli duri che è forse l’Italia più vera, in ogni caso la più profonda dato che abita le profondità ed è là che bisogna andarla a cercare. Italia funebre, Italia dell’inferno e dei sepolcri, di fucine e di caverne, Italia etrusca, di Dante e Donatello, dove gli operai sono esperti di estrazioni, sbozzature e fusioni, di tutti i mestieri che producono dei piani netti e di inconfutabili cristalli, di mestieri lucidi, Italia della pietra, della terra e del ferro, Italia dei Vulcani. Jean Cassou, “Avventure pietrificate”, Ed. S.M. rosso. Biella, 1964

Marziano Bernardi

[…] meno che ventenne, Mastroianni, dimostrava delle capacità eccezionali di modellato tradizionale, diciamo pure di quel modellato “classico” che dagli scultori romani della Repubblica va a Donatello per ritrovarsi in Gemito; e la qualifica che gli conviene è di “realismo”. Sotto le sue mani sorgevano dei nudi che avevano la purezza formale della Pisana o del Sogno di Arturo Martini, dei torsi e delle teste di giovinetti dall’epidermide serica come un raso; e già allora si capiva che quelle mani erano disposte a fare tutto ciò che lo scultore avrebbe in seguito voluto. I libri su di lui che vennero dopo il ‘40, e sono molti, da quello di Argan a quello di Nello Ponente, lo fanno di solito nascere a un’arte autentica, la tipica sua, negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra, cioè della grande crisi dell’antinaturalismo, e volentieri sorvolano sul quindicennio precedente, quando Mastroianni eseguiva gli spettacolosi ritratti per l’industriale Angelo Viberti e la sua famiglia. E’ un voluto silenzio critico alquanto interessato, come se riconoscere delle qualità splendide in quelle opere dal ‘30 al ‘40 fosse un compromettersi nei riguardi della più stretta modernità artistica; e così torna comodo, per esaltarne la produzione successiva, evocare un Mastroianni ribelle, rivoluzionario, misconosciuto e osteggiato. Ha scritto un suo biografo che “i Canonica, i Rubino, i Messina tentavano dalle loro posizioni chiave di soffocare qualsiasi, e sia pur minima, esigenza “rivoluzionaria” ma a parte il fatto che a quel tempo la visione plastica di Mastroianni non divergeva molto da quella di Francesco Messina, il quale non deteneva allora particolari posizioni chiave, io ben ricordo l’ammirazione di Edoardo Rubino, docente accademico, per il giovane immigrato, e i pubblici elogi di un critico, Emilio Zanzi, del 1934 del resto nel 1939 due sue opere, un bronzo e una terracotta, entravano nel Museo Civico di Torino, preludio ad altri acquisti. Certo la sua vita pratica era difficile; ma la stagione di vacche grasse per gli artisti nessuno a quell’epoca se l’immaginava. Ciò che piuttosto va messo in luce è che un fremito d’inquieta novità già correva, come una linfa addensata a inturgidare delle gemme, sotto le lisce superfici sensualmente accarezzate dallo statuario. L’impianto formale era d’un rigore estremo, lo governava una limpida geometria di volumi, ma lo si intuiva pronto a cedere a una dinamica interna: le immagini erano superbamente statiche, eppure svelavano la volontà di movimento; quel movimento che sarebbe divenuto dirompente energia plastica, non appena al mito del modello naturalistico si fosse sostituito l’impeto della fantasia irrazionale. Questa delicata fase, che si potrebbe dire d’incubazione, venne sottolineata dall’Argan scrivendo che nel Mastroianni antecedente il 1940 s’intravedeva “un gioco alterno di modellato e d’intaglio, di sovrapporre e scavare, di addentrarsi nel blocco e di risalire in superficie, di ancorare ogni minima palpitazione dei piani a una struttura interna invisibile”. In quel procedimento controllato e severo, che d’ogni minimo segno sembrava voler dar la riprova, l’artista maturava, più che non mortificasse un temperamento plastico generoso, naturalmente portato all’invenzione. La precisazione è sottile. Mastroianni non ha infatti mai fatto violenza alla sua sensibilità; è sempre stato totalmente libero di fronte alla sua fantasia e al suo mestiere: sia quando si poneva davanti a un modello in funzione di ritrattista conscio del proprio dovere di rappresentare la verità fisica e morale di un personaggio; sia quando da una forma umana anatomicamente esatta esprimeva una forma plastica che per lui significava un’operazione di “stile”; sia quando – come fa da quasi trent’anni – la sua immaginazione agisce indipendente da qualsiasi riferimento ottico alla realtà naturale. Voglio dire ch’è impossibile ridurre la sua azione artistica a uno schema concettuale, perché la sua qualità dominante è l’impeto dell’azione stessa, che allora può esplicarsi nei modi più imprevedibili, tutti contrassegnati da una sincerità assoluta. Perciò sarebbe un errore critico opporre un Mastroianni “figurativo” a un Mastroianni “astratto” o “non figurativo”, per attenersi a categorie di comodo. Marziano Bernardi, “Civiltà delle Macchine”, n.5, Roma 1969

Mario Valsecchi

Se la radice remota di Mastroianni è nell’opera futurista di Boccioni, si deve togliere di mezzo il pensiero che il rapporto sia di dipendenza […]. Non c’è dubbio che Mastroianni provenga da quel lontano ribaltamento estetico; ma sarebbe un errore considerare la sua scultura, tra le più drammatiche e vitalistiche, come una mera conseguenza stilistica […]. Intanto si deve dire subito che quel vitalismo ottimista dei futuristi si è profondamente arricchito di motivi dinamici come riflessi di un contrasto radicale di forze, di sentimenti, di opposizioni. La vitalità irruente che si esprime dalle forme spezzate della scultura di Mastroianni, dagli incroci violenti di masse che si scontrano e divergono, dimostra che anche l’energia si divincola da un’inerzia sorda della materia […]. Lo scultore partecipando agli urti dall’interno dello scatenamento, tende a creare un ordine plastico. Non è mai la sua scultura, un caotico ammasso; la forza raziocinante di una concezione plastica trova il punto giusto per inserirsi nel sobbollimento, trarre dal caos la massa materica e renderla significante come scultura, con un dominio di intelligenza immaginativa e di energia plasmate di cui ci sono pochi esempi così persuasivi come il suo. M. Valsecchi, presentazione nel catalogo della personale alla Galleria del Naviglio, Milano, 1970

Pierre Bargis

Come Pollok, Mastroianni ha cercato di rappresentare I’energia in termini di profondità, di volume e di movimento, ossia in un “continuum” spaziotemporale. La materia aggredita sotto la pressione della raspa, del punzone, dello scalpello, del martello, divenuta germinazione di spazio che non la limita, si sfoglia a poco a poco, palpitante, espansa, nella luce di una lirica concitazione, che a stento raffrena la violenza gestuale proiettata da un vortice di moto, in una rappresentazione-azione ininterrotta. Se i pittori americani della cosiddetta “action painting” cominciarono a considerare la tela come “un’arena in cui agire”, Mastroianni, immerso nelle masse plastiche, balenanti d’energia espansiva, dove curve, angoli, spigoli erompono dalla secchezza degli incastri in una dimensione spaziale non subìta ma di volumi attivi in perenne dissociazione e dislocazione, registra la mobilità di un universo in continua metamorfosi. Più che contemplare un momento della realtà per trasfigurarlo, urge stringere il reale con un’esigenza di totalità, che solo il mito può chiudere in diretto contatto con il cosmo, in una morsa meta e protostorica. Mentre Pollok, sommerso nel magma materico, giungerà sino all’annullamento della rappresentazione nell’azione, come sostiene la critica recente, Mastroianni mantiene in vita un “teatro spaziale” simbolico e profetico. Pierre Bargis, presentazione delle cartelle “Fantasie di Umberto Mastroianni”, ed. Espolito, Torino 1970

Erich Steingraeber

Il dibattito decisivo di Mastroianni col futurismo raggiunge il suo punto culminante negli anni Quaranta. L’evento bellico diede incremento alla rinuncia di contenuti vicini alla realtà, in favore dello sviluppo di un linguaggio culturale autonomo […]. Al posto della statica tradizionale, le opere di Mastroianni sviluppano forze dinamiche, senza un fondamento solido. Esse trasformano la materia in energia, sbocciano, scoppiando da un nucleo organico interno, protendendosi nello spazio. L’antagonismo fra forma e spazio costituisce il problema centrale dell’arte di Mastroianni. I gesti espressivi delle forme divergenti e penetranti che vengono bilanciati in modo misterioso, urtandosi nello spazio, non possono rinnegare la loro origine dal mondo organico, familiare all’uomo […]. Le opere di Mastroianni non sono segni disimpegnati. Esse sorgono da un impulso morale. Egli crea dalla sua conoscenza della pericolosità dell’uomo sradicato che deve tenersi in equilibrio fra libertà e legame, se vuole evitare il caos. E. Steingraeber, Mastroianni, ed. Albra. Torino, 1974

Palma Bucarelli

Mastroianni è indubbiamente uno scultore di monumenti, anche se, nel suo pensiero, il monumento non è più il simulacro di marmo o di bronzo posto nelle pubbliche piazze a commemorare eventi e personaggi storici o a esortare al culto dei supremi valori della tradizione. Tutta la sua scultura è intrinsecamente, strutturalmente monumentale e ha necessariamente una destinazione pubblica; e anche quando il monumento, non è mai pensato come episodio di arredamento urbano, ma come chiave di lettura e d’interpretazione del significato profondo della città […]. Il monumento della Resistenza a Cuneo è senza dubbio un esempio dei più significativi, e non soltanto in Italia, di un recupero della destinazione pubblica e della funzione storica della scultura. […]. La forma del monumento può essere interpretata come quella di una deflagrazione che si ripete e si propaga, appunto, dalla città alla montagna, come una reazione a catena. Ma è facile constatare che non si tratta di una forma simbolica, di un traslato. La mole bronzea sembra violare le leggi della statica, avventarsi nel vuoto: come immagine, il monumento si regge sul dinamismo delle spinte che si generano nel suo interno, dove le forme s’incastrano e si compenetrano per poi erompere violentemente all’esterno, nello spazio aperto, come gli spezzoni di un blocco che esplode. Implosione ed esplosione, compressione e liberazione: è questa, in sintesi, la dinamica della Resistenza. Ma non è rappresentata per simboli: è visualizzata, riprodotta e fissata nell’urto delle forze che scatena il dinamismo plastico del monumento. Dramma e catarsi, insomma, si ripetono incessantemente, con tutta l’intensità del loro contrasto, nella coscienza della gente che quel dramma e quella catarsi hanno vissuto in proprio o nella memoria […]. Senza l’immaginazione tutto si ferma, nulla può mutare. E’ stato giustamente osservato che la scultura di Mastroianni nasce da una concitazione romantica e tende ad una spettacolarità, ad un’esuberanza di effetti, ad un’emotività che possono dirsi barocche. Dunque la sua arte è tutta d’immaginazione; ma non per questo è un’arte di fantasia. La distinzione è fondamentale: la fantasia è evasione, l’immaginazione impegno. Per questo artista l’immagine è un materiale di lavoro, come i metalli e i colori di cui si serve: chi si metta alla ricerca delle immagini, nella sua opera, le trova sempre associate a uno status della materia fusa, rappresa, lacerata, aggrumata; e ai segni sempre evidenti del lavoro fatto su quella materia, compressioni, abrasioni, bruniture, perforazioni […]. P. Bucarelli, Mastroianni, De Luca Editore, Roma, 1974

Angelo Dragone

Nessuno più di Mastroianni, in effetti, ha saputo sviluppare con altrettanta coerenza e potenza espressiva, e con un assoluto dominio di materiali cui ama ricorrere – dominio che gli viene intanto da una vastissima esperienza e sapienza tecnica – quell’analisi lucida e angosciosa, insieme, d’una forma mai dimentica dell’uomo e delle sue fantasie, mai dimentica della sua cultura. Ciò che per un artista come Mastroianni – la cui opera tanto spesso somiglia alla deflagrazione della stessa energia organica che lo anima sino a straripare da ogni suo gesto – significa farsi interprete e continuatore, come ancor oggi può dire la lignea realizzazione del suo Toro (1969), dell’inquieta ricerca dinamico-plastica di Boccioni e della severa tensione di tanta parte dell’opera di Arturo Martini; alla luce, però delle più vive suggestioni della nostra età. Di qui, la profonda autenticità del l’opera di Mastroianni, dominata, si può dire, non più dalle suggestioni di un mito, ma dalla realtà della nostra civiltà meccanicistica; espressione di una società protesa ormai, nel suo impulso interiore, verso spazi sempre più vasti, per cercarvi tuttavia la medesima verità verso la quale per intuito o istinto, ogni uomo nel proprio intimo è portato. Angelo Dragone, “Stampa Sera”, Torino 1976

Jacques Lassaigne

[…] ”L’Italia ha il privilegio di avere trovato in Mastroianni un grande scultore che ha concepito monumenti assolutamente nuovi, commisurati a queste nuove esigenze. Avere avuto l’incarico dei due monumenti più importanti per commemorare la Resistenza popolare italiana deriva evidentemente dal prestigio che gli aveva valso la sua opera precedente di scultore, la sua azione durante la guerra, l’ardore delle sue convinzioni, ma anche senza dubbio è il risultato di una profonda comunione con il sentimento di tutto un popolo. J. Lassaigne, Umberto Mastroianni, “La scelta della libertà. Sculture nella Città”, Editrice Magma, Roma, 1976

Michel Tapié

Mastroianni è ormai riconosciuto a livello mondiale come uno dei grandi scultori di questo tempo, malgrado tutte le difficoltà che ha conosciuto a Torino e altrove, come il suo amico pittore Spazzapan che mi piace citare qui, poiché so che ciò gli farà piacere […]. Essi hanno avuto un duro scontro con l’ufficialità come altri grandi nomi dell’arte non accademica e quindi non conformista, contro questi conformisti che vorrebbero indirizzare tutto e arrestare in questo modo ogni possibilità di alta creazione artistica. M. Tapiè, “Un artiste… essentiellement!” dal catalogo della mostra antologica al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi, 1976

Claudia Terenzi

È stato più volte sottolineato il carattere monumentale delle opere di Mastroianni; un carattere che si ritrova non solo nelle opere di grande formato, ma anche in quelle di dimensioni ridotte, ottenute con tecniche diverse dalla scultura. Questo avviene perché anch’esse mostrano una originaria concezione plastica, oltre una evidente necessità di dilatazione formale e un senso di “celebrazione” dello spazio. Intendo parlare della produzione pittorica e grafica, come di quei rilievi che sono, al tempo stesso, pittura e scultura e che, per gli alti spessori materici, per la problematica dinamica, per l’energia assoluta dell’evidenza formale, non si differenziano dalle più grandi e impegnate realizzazioni monumentali. Ciò, tuttavia, non deve indurci a considerare Mastroianni poco sensibile alle diversità tra le varie tecniche, alla resa specifica di ognuna di esse, come se le subisse per ottenere poi sempre gli stessi risultati. E’ vero piuttosto che Mastroianni, sebbene portato ad imporre alle sue opere soprattutto una conformazione plastica, sia per un mestiere lungamente elaborato, sia per realizzare un rapporto emotivo diretto, più intenso e significativo con i materiali, ha continuamente rivelato la necessità di utilizzare e di sperimentare tecniche diverse, tenendo ben presenti i caratteri specifici di ognuna di esse in modo da ricavare effetti sempre nuovi e inusitati. E’ esemplare, in tutto ciò, la sua esperienza grafica, che sempre più si è andata intensificando in questi anni, e che ha riguardato soprattutto la produzione di incisioni. In esse, infatti, un primo rapporto di violenta manipolazione della lastra, teso a deformarne la struttura stessa, ha ceduto via via alla necessità di ritrovare una più precisa nitidezza di segni, che pure conservano quegli effetti di contrasto e di evidenziata manualità, tipici di tutta l’opera di Mastroianni. Risulta chiaro quindi, proprio osservando questa evoluzione, che egli non ha mai inteso formalizzare i mezzi espressivi usati e che ogni esperienza formale gli viene sempre sollecitata da una concreta verifica delle possibilità tecniche. Ma se è vero che tutta la pittura e la grafica di Mastroianni conservano una esplicita derivazione plastica – tanto che egli è arrivato perfino a fondere in bronzo alcune matrici per le incisioni, ottenendo così delle vere e proprie sculture – è altrettanto vero, come ha giustamente osservato Argan, che tutta la sua scultura ha un’origine grafica. E ciò è avvenuto sia quando ha voluto imprimere alle sue sculture figurative, attraverso la intensificazione di certi segni, una maggiore ricchezza di novità di modellato, sia quando, successivamente, ha provocato continue lacerazioni e deformazioni della materia, negli anni in cui i suoi interessi si andavano avvicinando, pur con estrema autonomia, alle poetiche informali. E continua ad avvenire oggi, tutte le volte in cui proprio nel segno egli ricerca la matrice di più decise geometrie e di più complesse esplosioni dinamiche. C. Terenzi I monumenti di Matroianni in J. Lassaigne, “Umberto Mastroianni, La scelta della libertà. Sculture nella Città”, Editrice Magma, Roma, 1976

Francesco Moschini

L’aspirazione al monumentale è certo una costante di tutta la scultura di Mastroianni, non limitata, quindi, alle opere di carattere urbano, ma che trova semmai nello specifico del monumento una valvola di sicurezza a quell’urgenza, a quella spinta verso il gigantismo. Quella spinta verso una costruzione titanica, fa sentire all’artista il proprio lavoro sempre troppo limitato e circoscritto, come se tutta la sua ricerca fosse una sperimentazione da laboratorio, ed il suo fare un armeggiare divertito e indagatore su cose che alla fine rivelano la loro riduzione al troppo piccolo. Ecco allora Mastroianni preoccuparsi di ingrandire, di portare la propria scultura ad un vertiginoso contrasto tra la mole scultorea e la riduzione, intesa come rimpicciolimento fisico, della presenza umana. Si giunge così ad uno schiacciante rapporto dimensionale che porta lo spettatore ad assumere un atteggiamento di scoperta delle opere, per pezzi e per parti separate, come i personaggi di Swift, nell’impossessarsi di Gulliver, ne tentano una illuministica conoscenza che sveli, di quella «montagna incantata» la propria struttura. Ma se l’esasperazione dimensionale pare essere l’elemento unificatore della produzione di Mastroianni, la sua vocazione al gigantismo inserisce le opere in un circuito di tipo formalista e le estranea dal rapporto stretto col reale. Entra in gioco tutta la esperienza delle avanguardie artistiche dal dadaismo al surrealismo, a quelle più prossime, come quella derivatagli dal suo contatto con Spazzapan, col suo ossessivo geometrismo, e quella più nuova, di tipo esoterico, che lo lega al divertito e disinibito mondo di Man Ray. La ricerca di una subordinazione che stabilisca la priorità dell’opera rispetto alla presenza dell’umano, con l’incombere e sovrastare del manufatto, nel rivelare la riduzione a presenza trascurabile dell’artista in senso tradizionale, ne precisa il nuovo ruolo di puro organizzatore di materiali linguistici a disposizione. Mastroianni: la scultura urbana come oggetto ansioso J. Lassaigne, Umberto Mastroianni, “La scelta della libertà. Sculture nella Città”, Editrice Magma, Roma, 1976

John Gruen

[…] Erede di una tradizione che mette le radici sia negli scritti e nei precetti di Marinetti, che nei lavori di Balla, Carrà, Boccioni e altri, le sculture monumentali di Mastroianni, partendo dallo “slancio” dall’intensità e dalla “velocità” dei lavori dei suoi predecessori, vanno assolutamente oltre dando un dinamismo assoluto, moderno a mastodontici “macchinari”, che con la loro invenzione ritmica e la loro complessità spaziale generano un’emozionante logica strutturale. J. Gruen, “Art News”, New York, 1978

Arturo Carlo Quintavalle

Certo, la sua scultura è sempre figurale anche nella apparente astrazione e i temi, il cavallo o l’uomo che sempre cammina, sono anche boccioniani, ma al di là di questa tematica futurista, Mastroianni stabilisce un nesso nuovo con la storia: non dunque l’entusiasmo per la rivoluzione futurista della macchina, ma la convinzione che la storia, come suggeriva Brancusi, è rapporto con il territorio della propria cultura […]. Mastroianni, cioè, recupera il fatto nuovo della ricerca futurista, il rapporto tra uomo e macchina e il senso della durata e, dalla cultura europea, il sistema, già rimosso dai nazisti come arte degenerata che da Nietzsche arriva alla cultura detta di immagine attraverso Klee e Schwitters e poi, per le vie dell’informale, ma ancora su matrice kleeiana, a Wols. A.C. Quintavalle, “Panorama”, Milano, 1980

Giulio Carlo Argan

La bravura tecnica di Mastroianni non è quella dell’artefice, ma quella dell’artificiere: carica di energie contraddittorie, fino alla saturazione, i suoi ordigni metallici, e li fa brillare. Accade allora che, nel repentino cambiamento del ritmo, la materia non soltanto si schianta e si proietta nello spazio in schegge e spezzoni, ma si trasforma: lacerata, scopre i suoi punti di minore resistenza, le sue predestinate linee di rottura; abrasa, espone alla luce la sua fibra viva; fusa, scorre in colate incandescenti. Il ferro, il bronzo diventano oro, argento, mercurio. Nessuna pietà per il rottame: il congegno meccanico non si degrada ma si sublima e sale alle stelle nel preciso momento in cui salta. E’ come quelle macchine cerimoniali barocche che raggiungevano la loro vera forma soltanto quando bruciavano: né si può negare che la scultura di Mastroianni abbia un suo carattere teatrale e barocco. Tutta la sua opera, e i rilievi e i gioielli non meno delle grandi sculture, è percorsa da due correnti alternanti, di entusiasmo e di ironia. L’opera fenomenizza bensì l’ambiente, ma un ambiente in cui l’artista è presente, si agita, fa gesti: il suo virtuosismo spettacolare non è che un aspetto della tecnica prodiga e gratificante che si contrappone alla tecnica premeditata, esatta, economica che dovrebbe costituire, nella civiltà delle macchine, il modello del comportamento morale. Nonostante la linearità del suo sviluppo, la storia dell’opera di Mastroianni non può essere disgiunta dalle situazioni oggettive a cui ha reagito. Già l’accentuato espressionismo delle prime opere figurative era in palese, intenzionale contraddizione con il quietismo conformistico che il regime fascista esigeva dagli intellettuali italiani. Era anche, però, l’indizio di un preciso dissenso nei confronti del dignitoso disdegno con cui due nobilissimi artisti come Marino e Manzù opponevano al classicismo ginnasiale dei vari Romanelli e Messina un severo approfondimento del significato del classico nella condizione storica presente. La divergenza si fa più marcata dopo il 1940, quando Mastroianni decide di rompere non solo con la tradizione classica della scultura, ma con la rappresentazione figurativa: si ricollega allora alla radicale trasformazione delle strutture formali dell’arte operata, trent’anni prima, dal Cubismo. G. C. Argan, Itinerario Critico, in G.C. Argan, Cesare Brandi, Umberto Mastroianni, “la simbologia delle forme”, Dedalo libri, Bari 1980

Cesare Brandi

Sarebbe facile e ingiusto vedere nel tema dell’esplosione una rivalsa della natura bruta, un naturalismo ancora più letterale e diretto, indistinguibile dall’oggetto stesso naturale che rappresenta. Non è insomma quello di Mastroianni, un naturalismo formale. Per capirlo bisogna riferirsi a un precedente di alto tenore formale, la rappresentazione della luce in Bernini. Nel capolavoro dei capolavori berniniani, la Santa Teresa, la luce divina che muove dall’alto con raggi solidi di bronzo dorato che sono come tanti dardi che scoccano e quasi dei sottili giavellotti […]. Ora, nel monumento di Cassino, le violente proiezioni all’esterno, da un nucleo che detona, di materiali come tubi rotti, lacerti di involucri, schegge mortali, si pongono come raggi materializzati di una esplosione stellare, di una novissima che scompare in un buco. C. Brandi, “I due fuochi di Mastroianni”, in G.C. Argan, C. Brandi, Umberto Mastroianni, “la simbologia della forma”, Dedalo libri, Bari, 1980

Augusta Monferini

Mastroianni compendia quanto di meglio la tradizione plastica del ‘900 poteva offrire, all’inquieto classicismo di Marini, al romanticismo mediato di Manzù, all’invenzione fresca di apparizione improvvisa di Arturo Martini, spunti e riferimenti che l’artista risolve originalmente nella ricerca di un equivalente “impressionista” della scultura. A. Monferini, M.G. Tolomeo Speranza, “la Donazione Mastroianni”, Mondadori – De Luca, Roma, 1987

Lorenza Trucchi

[…] Mastroianni attraverso il Futurismo arriva al Barocco. Un Barocco inasprito da una vena esistenziale, fatto non per alimentare la meraviglia ma per istigare alla denuncia. Alla strategia propulsiva di un’immaginazione in gloria tipica del Barocco, Mastroianni preferisce infatti un’immaginazione in memoria di fatti cruenti e dolorosi della nostra storia recente. L. Trucchi,”l’anticonformista”, in “Il Giornale”, 30 settembre 1990

Sebastiano Grasso

Mistero e stupore. Poesia e musica. Questi i punti attorno ai quali gravita la scultura di Umberto Mastroianni (Fontana di Liri, Frosinone, 1910). Una scultura barocca, monumentale e rivoluzionaria, perché – come un evento architettonico – aggredisce lo spazio piuttosto che fondersi con esso. Una scultura che ha in sé – come ha osservato Luigi Carluccio – una musica “tutta fiati e percussioni”, piuttosto che “flauti, violini, arpe” come in Fausto Melotti. […] Mastroianni guardava alla Grecia e al Rinascimento, e via via ad alcuni artisti a lui contemporanei con la curiosità del neofita e l’ azzardo d’un ingegnaccio in fieri. A Marini, per esempio. E ad Archipenko, a Zadkine, a Lipchitz. Una volta trovata la strada, l’ avventura di Mastroianni percorre ogni indagine. Superato il rapporto uomo macchina, egli costruisce il proprio stile basato sui contrasti. Lacera la massa, la scompone. Il passaggio dal figurativo all’ astratto diventa quasi naturale. Non occorrono abiure. Così l’ artista ciociaro è andato avanti per decenni, costruendo uno stile dinamico, ricco di contrasti, e azioni che sembrano violentare le masse, di vuoti laceranti. Da qui, un mondo pieno di stupore e di vigore. Mastroianni è un raffinatissimo barbaro. Nella sua ansia di sperimentazione, egli crea opere d’un “cromatismo squillante”. Nella cornice di Castel Ivano, diventano fantasmi inquieti, presagi; illusioni colorate. Ma non è forse vero che “popolare il mondo di fantasmi è come creare un nuovo mondo apparente, ma ricco di presagio”? Sono parole dello stesso Mastroianni, che precisa: “Noi artisti siamo i creatori, se volete, delle illusioni”. Sebastiano Grasso, “Un creatore d’ illusioni e i suoi fantasmi”, Corriere della Sera, 11 luglio 1993

Maurizio Calvesi

Già Boccioni – lo sappiamo – aveva polemizzato con quelle ingenue formulazioni, ricercando il movimento come energia latente nella materia: ed è proprio a Boccioni che Mastroianni si riallacciò ma liberandosi del tutto dai residui comunque programmatici del dinamismo futurista e guadagnando altri territori alla sua immaginazione del “caos” genetico e creativo. Barocco, come “barocco” dovette essere […] il bigbang, come barocco è l’universo nello suo dinamica illimitata, nel suo intreccio di movimenti, eruzioni, catastrofi, corrugamenti, cozzi, distanze. L’”eccesso” di Mastroianni, comunque, non è dispersivo: al contrario, è arginato da uno struttura serrata e potente, che nasce dalla correlazione dialettica del forte nucleo plastico con le sue propaggini irradiate nello spazio, dei pieni con i vuoti, dei profili curvi con i tagli rettilinei, delle superfici scabrosamente materiche con quelle più levigate, quasi in una ripresa del contrasto michelangiolesco di finito e non finito. M. Calvesi, “la poetica di Mastroianni”, in Museo Donazione Umberto Mastroianni, “Il Cigno GG Edizioni”, Roma, 1995

Rossana Bossaglia

Lo scultore Umberto Mastroianni è morto ieri a Marino, vicino a Roma. Aveva 88 anni. Era zio di Marcello Mastroianni. Non ho mai perso l’occasione di sottolineare quanto sia vasto e di alta qualità l’orizzonte della scultura italiana del nostro secolo; caratterizzata da una fisionomia specifica ma ben inserita nel contesto internazionale. Fra questi protagonisti si colloca Umberto Mastroianni, che in modo specialmente espressivo ha rappresentato l’incontro fra una manualità professionale di bella e forbita tradizione e la volontà di superare ogni limite accademico o piacevolmente descrittivo per esprimere, attraverso una forma sempre più spezzata e disgregata, il significato profondo dell’attività artistica. E ancora: nel suo lungo fecondo percorso creativo, Mastroianni ha continuato a recepire stimoli dalle correnti più evolute e forti; e, appunto, guardando al panorama europeo nelle sue varie articolazioni. Cosicché, se negli anni ‘30 la pulita bellezza delle sue figure rivela l’impronta dell’atmosfera novecentista e in particolare casoratiana, quando egli evolve verso espressioni di tipo avanguardista fa tesoro sia della lezione del Futurismo sia di quella del Cubismo, da Boccioni a Zadkine. Questa personalità complessa, ma tutt’altro che eclettica, anzi governata da un’idea precisa dell’arte in organica evoluzione, scaturisce anche da una formazione avvenuta in luoghi diversi e con esperienze diverse. Nato nel 1910 a Fontana Liri, in provincia di Frosinone, Mastroianni ha il suo primo impatto con la scultura a Roma, nello studio dello zio, dunque all’interno di una tradizione familiare, sia pur supportata e allargata dalla frequentazione dell’Accademia. Trasferitosi a Torino, dove a poco a poco maturerà il suo linguaggio astratto, è inizialmente coinvolto nelle forbitezze formali dell’ambiente casoratiano, come si diceva; ma la sua attenzione alla purezza del linguaggio non lo conduce mai a compiacimenti estetizzanti. Anzi, quando abbandonerà decisamente la mimesi della realtà per scegliere strutture pressoché surreali, sorta di macchine simboliche di forte tensione dinamica, sosterrà decisamente il valore ideologico delle sue figurazioni, cioè a dire la tensione morale dei contenuti. Anche qui, non nel senso di metafore dirette di uno specifico pensiero; anzi, abbandonandosi a pulsioni interne che possiamo interpretare come vera e propria passione creativa. Scriveva nel 1955: “Alle soglie della maturità ho coscienza di aver distrutto una facile realtà cercando di individuare la sostanza plastica con le mie forze più naturali ed istintive possibili. Gli esteti, i critici, spesso, giocano con le parole, ma lo scultore vuole incidere una pietra, una roccia, un bronzo e partecipargli la sua ansia, anziché trovarla già superstite sul suo cammino”. A questa data Mastroianni era già scultore notissimo, aveva partecipato alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma, e aveva già avuto vari riconoscimenti internazionali. Ma sono proprio questi gli anni in cui si definisce la personalità che, pur nelle continue evoluzioni, acquista una fisionomia precisa agli occhi del pubblico. Il primitivismo di matrice cubista si spezza e anima sempre più, in analogia con il percorso dell’amico Spazzapan cui egli dedicherà negli anni ‘70 una vitalissima scultura in acciaio. E potremmo parlare di un informale di tipo neo espressionista, tanta è la passione che lo percorre. Maestro nell’impiego di diversi materiali scultorei, Mastroianni da questa data predilige ferro e acciaio: in acciaio realizza quella che è forse la sua opera più nota, il Monumento alla Resistenza collocato a Cuneo alla fine degli anni Sessanta. Trasferitosi subito dopo nella sua terra d’origine, nel 1970 avrebbe inaugurato a Frosinone il Monumento ai Caduti di tutte le guerre. Nel ricapitolare, il giorno del compianto, questa vicenda artistica percorsa da una sorta di drammatica felicità espressiva (e i lettori ricorderanno forse la grande antologica realizzata, a Milano, nel 1985) abbiamo la certezza che essa si collochi come uno dei punti fermi del panorama della scultura europea di questo secolo. Rossana Bossaglia, Dalla figura all’ informale, un’ epoca scolpita nell’ acciaio. “In nome di Boccioni”, in “Corriere della Sera”,26 febbraio 1998

Giuseppe Appella

Chi ha avuto modo di vedere, nel 1981, le mostre di Fausto Melotti e di Umberto Mastroianni allestite al Forte fiorentino del Belvedere, ricorderà quale abisso corresse, di stile e di espressione, tra i due scultori pronti a specchiarsi nella cupola del Brunelleschi e nel campanile di Giotto. Entrambi provenivano da un lungo rapporto con l’ antico, Melotti sempre chiuso in una apparente fragilità, tutta musica di flauti e di arpe, Mastroianni pronto ad ostentare una forza barbara, carica di azione e di energia. Barbaro, o pirata, lo chiamavano, infatti, a Torino dove era giunto nel 1926 (lo stesso anno in cui Melotti bazzicava l’Accademia Albertina) e dove era rimasto fino al 1970. Perciò, la sua formazione è completamente torinese, nonostante la precedente frequentazione romana dello zio scultore Domenico Mastroianni. Torino, a metà degli anni Venti, ha un ruolo di particolare importanza nella cultura italiana: è informata delle esperienze europee, fino a Cézanne, attraverso le lezioni universitarie di Lionello Venturi, è animata da Casorati e dalla sua scuola, da Edoardo Persico e dal Gruppo dei Sei. Il giovane Mastroianni (era nato a Fontana Liri nel 1910), mentre fa pratica nello studio di Michele Guerrisi e segue le lezioni di Edoardo Rubino, ascolta i discorsi che si intrecciano tra il Caffè Nazionale, il Caffè Alfieri di via Po e il Bar Patria di piazza Castello, non trascura le serate del Teatro di Torino sostenute da Riccardo Gualino, si infervora alle polemiche dei futuristi sulla nuova architettura. Intanto, è arrivato da Gradisca Luigi Spazzapan, detto il Bucaniere per la sua aggressività e il disprezzo assoluto per quanto non sia libertà del “fare diverso”. Spazzapan è intriso di umori secessionistici acuiti da una grande dote di rapporti umani sensibili ed intellettualmente onesti. Alla fine della guerra diventa, per Mastroianni, l’ incontro determinante per la sua formazione e per l’ abbandono della stagione figurativa. Le forme chiuse, pulite, derivate dalla statuaria egizia così viva nella città piemontese, vengono percorse da solchi e ferite, da raschiature e lacerazioni che innescano la miccia di una grande esplosione di forme spezzate, trafitte e ricomposte nei materiali più diversi, in un processo mentale che insegue l’ antica vena barbarica e per raggiungere solidi volumi, senza rinunciare al movimento, coniugando Martini con Boccioni, Prampolini con Brancusi, Picasso con Wotruba. Lo stesso informale, alla fine degli anni Cinquanta, ha il suo peso nella scelta di una composizione che prenda possesso dello spazio e attivi quelle enormi e violente macchine che incombono con le loro rotelle e i loro ingranaggi sulle anonime architetture circostanti. Il compendio di queste ricerche sono il Monumento alla Resistenza Italiana di Cuneo (19641969), il Monumento ai Partigiani del Canavese (1969), il Monumento alla Pace della città di Cassino (19711972). Quest’ ultimo è intitolato Energia, ad inverare la densità plastica di un lavoro che nell’ articolarsi delle forme intorno a un nucleo centrale rintraccia la vena di una costante narrazione epica. Giuseppe Appella, “Mastroianni il barbaro”, “Repubblica”, 26 febbraio 1998

Angelo Mistrangelo

La sorprendente, vitale, pulsante stagione artistica di Umberto Mastroianni si configura con l’intensità di una materia che diviene volto dalle linee purissime, esplosione di forme nello spazio, segni di una dinamica esperienza astratta. Un itinerario che appartiene alla storia dell’arte del Novecento, a un percorso che racchiude il fascino di un discorso sottolineato dall’incidenza della luce che «scopre» i piani compositivi, a una vicenda segnata dall’evoluzione del linguaggio verso una conquistata libertà espressiva (…)Un tormento che emerge dalla straordinaria espansione della materia nello spazio, dalla saettante scansione della linea che penetra con forza nell’atmosfera, dalla strenua energia della composizione che esprime una sorta di dominio dell’«uomo sulla macchina», sulla tecnologia avanzata, sui materiali che però si piegano a una manualità incredibilmente creativa. La dinamicità  di una «macchina» che tende ad alzarsi in volo, la struttura arcaica e sacrale di una figura archetipica, la cromia che sottolinea il ritmo delle masse risolte attraverso una controllata musicalità, concorrono a definire il senso di una ricerca caratterizzata da vivacità e leggerezza, icone figurali e riferimenti ai graffiti rupestri(…)Vi è, quindi, in questo suo procedere un compenetrarsi di sentimenti, di sensazioni, di inquietudini e di sospensioni psicologiche, di una sottesa spiritualità e di una nobile bellezza, di un gesto che attraversa il tempo e la ieratica staticità dei ritratti femminili, pur nella loro squisità solennità, e le potenzialità della struttura geometrica(…). Un’immagine che diviene frammento, segmento, ruota dentata, spirale in ferro, sintesi del pensiero, riflessione sull’avventura dell’uomo e interiore poesia. Da «Mastroianni. Immagine&Astrazione», a cura di Angelo Mistrangelo, Associazione ex Allievi Fiat, Regione Piemonte, 22 ottobre-13 novembre 1999, Palazzina Liberty, Torino.

Angelo Trimarco

La mostra si propone di documentare alcuni momenti significativi della scultura italiana del dopoguerra attraverso l’esperienza di Umberto Mastroianni, Giuseppe Uncini, Augusto Perez: un cammino che, per Mastroianni, muove dagli anni Cinquanta – dunque dal decennio in cui, consumata l’esperienza figurativa, propria del lavoro precedente, si aprono spazi e territori fortemente innovativi – per approdare alle ricerche degli anni Settanta. Per testimoniare di questo discorso vengono esposte sculture di medio e grande formato insieme ad una scelta rigorosa di opere su carta, disegni e progetti che esemplifichino e ulteriormente chiariscano l’itinerario di ricerca svolto dall’artista nei tre decenni considerati. Trittico intende seguire, sondando territori così diversi (eppure confinanti), i percorsi di artisti che hanno sperimentato forme e modi della scultura in cui si intrecciano l’attenzione alla materia e la riflessione sul valore dell’ombra, ma anche la tensione del figurale condotta alla sua estrema trasparenza. “Trittico. Mastroianni, Uncini, Perez”, a cura di A. Trimarco “Le Ragioni della Mostra”, 2000, Padula, Certosa di San Lorenzo, 1999.

Stefania Zuliani

Il lavoro sul segno, articolato in parola ma anche disseccato nel nervoso bianco e nero dei disegni o, ancora, sostanziato dalla materia e dal colore, si offre come riconoscibile cifra dell’intera ricerca di Mastroianni. È necessario strumento interpretativo che apre alla comprensione delle proposte, plastiche e teoriche, che hanno accompagnato i lunghi anni di attività dell’artista, segnandone con particolare efficacia i decenni della piena maturità. Senza voler riproporre la tesi, ormai ampiamente discussa e superata, di una netta discontinuità fra le ricerche che hanno contraddistinto la prima, <<figurativa>> stagione della scultura di Mastroianni, e le sue successive evoluzioni, è infatti soprattutto nelle opere realizzate durante gli anni compresi fra il 1950 e il 1980 che è possibile leggere con chiarezza tutta la complessità, anacronistica e sottilmente contraddittoria, di un’esperienza che si è mantenuta costantemente in bilico fra tensioni d’avanguardia e nostalgie di tradizione. Avendo dapprima attraversato con avvertita sensibilità tecnica le forme di una scultura di memoria ancora ottocentesca – risalgono per lo più agli anni Trenta i nudi ed i ritratti in cui De Pisis aveva scorto un’eccentrica, insospettata qualità gotica – per poi incontrare, alle soglie della seconda guerra mondiale, le ragioni rivoluzionarie della plastica cubista e del dinamismo futurista (più tardi rinnegato come un inevitabile equivoco), è infatti soprattutto a partire dagli anni Cinquanta che Mastroianni ha scelto di intrecciare e confondere liberamente tutte le molteplici (e a volte irriducibili) direzioni lungo le quali si è sviluppata, sperimentale e non eclettica (Argan), la sua singolare pratica dell’arte. Profezia e memoria, emozione e progetto, inconscio e tecnologia: è del continuo, talvolta squilibrato, dialogo fra queste opposte tensioni che si nutre nel dopoguerra la riflessione, teorica ma anche operativa, di Mastroianni, così come è fra esplosione ed assemblage che, è stato Brandi a notarlo, si muove l’orbita ellittica – e, quindi, barocca – della sua scultura. Barocco che, del resto, è figura ricorrente nell’interpretazione del corpus eterogeneo dell’opera di Mastroianni, riferimento piegato a sorprendenti analogie formali (le linee deflagrate del monumento alla pace di Cassino hanno fatto pensare ai raggi divini che illuminano la Santa Teresa di Bernini), talvolta ricordato come condivisa via di fuga alla misura e all’ordine di una classicità riproposta nei controversi anni fra le due guerre. Più spesso, è nella tensione vitalistica delle forme, nell’acceso dinamismo plastico e spaziale delle sue materie che è stata riconosciuta la consapevole e quasi originaria sensibilità barocca di Mastroianni (<<Nella mia terra non c’è transizione tra i colori medievali e quelli barocchi. Da questo insieme nativo e meditato, dalla rude forza della mia terra, dalla sensuale ricchezza del Barocco, ribolle il crogiolo della mia fantasia>>). Una capacità di riscrivere, inquietandole, le stabili coordinate del tempo e dello spazio la cui compiuta espressione non va però rintracciata tanto nelle singole opere quanto nel gusto, effimero e allo stesso tempo possente, della messa in scena, dell’allestimento magniloquente e spettacoloso. Un’esuberante qualità scenografica e teatrale – e davvero alcuni congegni scultorei di Mastroianni funzionano <<come quelle macchine cerimoniali barocche che raggiungevano la loro vera forma soltanto quando bruciavano>>- che lo stesso artista ha saputo riconoscere e scrivere, scolpire: <<Sogno volumi che tentano di spezzare un’architettura, un ordine. Un’idea teatrale fatta di macigno e incrostata di antiche parole risuona il senso di una realtà presente ed opprimente […]. Il teatro c’è ed è grande dentro di me, le apparizioni concatenate al gesto frenetico mi riportano alla scultura che soffia la luce ad ogni istante di vita>>. Una visione gigantesca e fragorosa, questa di Mastroianni, intessuta ancora una volta di segni e linguaggi differenti -<<Quest’avventura mi affascina, mi sentirei regista, compositore, romanziere>> -, in cui confluiscono e si confondono progetti e desideri, dove prendono corpo, ad un tempo umano e disumano, concretissime fantasie. Umberto Mastroianni. Corpi della memoria, in Trittico. Mastroianni, Perez Uncini, cat. della mostra a cura di A. Trimarco, Electa Napoli, Napoli 1999.

Maurizio Calvesi 

[…] Già, il grande Boccioni, che aveva proclamato: «Le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali». Il pubblico francese rievocò subito il nome di Boccioni quando fu posto di fronte a Parigi, nella Galerie de France, alla felice mostra di Mastroianni del 1951. […] Dico felice anche perché fu oggetto di unanime, ammirato riconoscimento, imposto dall’evidenza di un natura “italiana” che tornava a manifestarsi con avvincenti assonanze in quella città, quarant’anni dopo lo prima apparizione dei futuristi. Una tradizione italiana? Senz’altro, e anteriore allo stesso futurismo. Se Cassou cita Donatello, io penso che,la prorompente forza della Scultura di Mastroianni può sollecitare ricordi anche più arditi, come quello, certamente trasfigurato, del sommo Michelangelo: a cui si può persino ricondurre, idealmente, il contrasto di finito e “non finito”, che Mastroianni ha reinventato negli anni dell’Informel. Ognun sa che il celebre “non finito” michelangiolesco consiste nel drammatico affiorare della materia allo stato grezzo, in alcune parti della scultura, mentre altre si presentano compiutamente modellate. Il Nostro alterna fin dagli anni Cinquanta, a lucide forme astratte, geometricamente definite come piani che riflettono la luce, zone matericamente informali, scabrose e intrise d’ombra, in una grandiosa evocazione di processi generativi e formativi, di quasi vulcanica (e fragorosa: La voce della materia) irruenza. I ricordi dello scultore coincidono: prima della guerra, ha scritto,  «io avevo studiato i maestri antichi: Fidia, Michelangelo, Donatello, Piero della Francesca, Masaccio. ora incominciai a studiare i maestri moderni, in primo luogo Boccioni, l’artista che ha rinnovato l’arte italiana. Non potevo più riposare sugli allori. Dovevo rischiare a tutti i costi». In questo stesso piacere del rischio, della sfida, si manifesta una personalità che è geneticamente erede dello slancio futurista, slancio che aveva tuttavia qualcosa di connaturato, in lui, cioè di proprio dell’indole stessa, impetuosa, del personaggio; e che risultava persino dagli atteggiamenti pratici, come l’amore per le automobili e la velocità. […] Io conobbi Mastroianni verso il 1975 a Bologna, e in uno scritto dei primi anni Novanta ho rievocato quell’incontro di allora, che mi aveva sorpreso per la impressionante e quasi violenta prorompenza della Sua personalità: Mi rileggo: «Ci fu un periodo – la seconda metà dgli anni Cinquanta – in cui il posto di lavoro di Mastroianni e il mio distavano pochi passi. Era in Via delle Belle Arti a Bologna […] Fu allora, proprio in quel tratto di strada, che conobbi Mastroianni. Alto, effusivo, di slancio mi stritolò la mano nella presentazione. Se ancora oggi Umberto ha l’energia e l’esuberanza di un giovanotto, allora – che la prima cifra dei suoi anni era la metà dell’attuale – la sua irruenza comunicava una sensazione quasi allarmante e nel mio animo metteva all’erta istinti reconditi come quelli di un esploratore di fronte ad un leone. Nella sua stessa figura, nel suo gestire, nel suo tono di voce, nel suo calore, come del resto nella scultura, era ritratto un felice e creativo eccesso di vitalità». Già come nella scultura! […] tutto ciò che ho fin qui detto dell’uomo, è un ritratto della sua scultura. centrifuga, aspirava a un’occupazione dello spazio non statica, ma attinta d’impeto. Centrifuga , trovava l’apice della propria felice attuazione nei grandi monumenti, questa forma quasi anacronistica di espressione, che Mastroianni seppe riportare alla sua funzione e che per lui rappresentava la possibilità di tendere in uno spazio immensificato le forze dei suoi legni, dei suoi metalli, di tracciare un disegno grandioso della potenza stessa dell’arte. Autentici capolavori come il Monumento alla Resistenza di Cuneo ne danno testimonianza. Ma la tensione si esprimeva anche nei formati medi, e persino in quelli minori, trovando accordi di voci meno tonanti, armonie gentili, agili, saltanti; oppure negli incendi e nei terremoti dei cartoni. E senza però che il moto mai cessi, che si arresti in qualsiasi, concentrato dettaglio della più tascabile delle sue creazioni, come dei più solenni e protesi caroselli di legni, o irosi subbugli di ferro. Il Canto della Materia, Carmagnola, 2008.

Aurelio Pes 

Il testo è fissato nella Bibbia: Dio prese il fango – qualcuno traduce argilla- e con esso modellò Adamo, divenuto frattanto l’homme rouge, per l’attitudine ad indurire nel fuoco questa sua prima aggregazione. Nasce in tal modo, con l’uomo, la statuaria, perfetta sin dall’inizio, non assoggettabile dunque a criteri evolutivi, bensì a continue e compiute metamorfosi. È sufficiente osservare i manufatti neolitici, per comprendere la veridicità di questa assunto. Sulle superfici grezze, segni astratti raccontano, in un alfabeto complesso, storie di comunità, genealogie, nascita e declinare di popoli. Sono i primi annali dell’Umanità, insuperabili per rese artistiche e cromatiche. Questi manufatti, esaminati l’uno dopo l’altro, ancora oggi suscitano l’inquietudine di significati molteplici da decifrare, per i quali non possediamo più le parole adeguate, ma che poi non sfigurano se posti accanto alla Ricerca del Tempo Perduto, l’immenso libro fondativo scritto da Marcel Proust o alla Storia di Genji il principe splendente, elaborato da Murasaki nell’anno 1000 in Giappone. La dorazione della Natura, cui l’artista è da sempre partecipe, diviene in tal modo esperienza metafisica, che da’ ai riguardanti, oltre alle impressioni durature di una cosmologia riconquistata, anche lo sguardo interiore pronto a donarci, con forza inusitata, l’essenza di ciò che un tempo siamo stati e vogliamo fortemente tornare ad essere. È in tali premordi che, fin dagli inizi, si assesta l’opera monumentale di Umberto Mastroianni, già attento da giovane cucciolo a riconnettere i segni vivi della nostra cultura occidentale, rielaborandola à la maniere dei Greci, ma anche di Michelangelo, Donatello, Desiderio da Settignano, Laurana, etc, torsi d’atleti, donne dal collo lungo, recate in auge dal Parmigianino, quindi da Modigliani; o quel mirabile “Ritratto di Ragazzo” del 1940,  dove lo sguardo acquatico, trasognato, e il modulare per sfere, alludono con forza all’Egitto. Il metodo qui in uso è del tutto simile di Thomas Elliot che, concludendo la “Terra Desolata” scrive per tutti noi: «sedetti sulla riva a pescare, con la pianura arida dietro di me. Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?/ Poi s’ascose nel foco che s’affina/ Quando fiam uti chelidon/ Le prince d’acquitaine à la tour abbolie. Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». Allo stesso modo, posta in sicurezza la propria dimora, la svolta modernista per Mastroianni avviene con l’“Uomo in bronzo” del 1942, reso come un bunker assediato, seppur aperto all’esterno da ferite e triangoli e lacerazioni, che tentano di schiudersi alla luce meridiana della vita. Da questo momento, il fulcro del suo lavoro è tutta una fioritura d’invenzioni e ricreazioni, il gesto si assottiglia, tende all’astratto, come il procedere maestoso del vento che nel deserto modula le dune, le quali, arrotandosi, emettono un suono che riecheggia il mondo vagheggiato dell’Eliso dove tutto era, era stato, era per essere. E questo vento modella ora tritumi di rocce che di continuo si sovrappongono e che sono il cuore stesso della materia, dove si affrontano i volatile e il fisso, l’alchemico mutare e il consistere degli elementi, e dove ogni forma è una schiuma, ogni sentimento una bolla, ogni percezione un miraggio. Al suo interno si aggirano cani crestati, bacche chiomate, cavalli cornuti, uccelli parlanti, in attesa di una definizione ultima, sempre inappagata; mentre dalle acqua affiorano i pesci primordiali – “Oceania” 1976 – e un “Murmure” si leva (1976). E questo suono esprime, nel mondo vedico, lo stupore dell’uomo dinanzi al lieve solco della falce di luna, anch’essa transeunte; l’unione indissolubile tra la radura e la seminagione; o quel legame magico che esiste tra le piume di certi volatili e le nubi fluttuanti nel cielo. I corpi ora divengono meccani, congegni, rotelle; gli occhi si arrotano a spirali, artigli solcano la materia, scuri taglianti e dentate si accampano minacciose (Rame 1977). Secondo la Tentazione di Sant’Antonio descritta da Flaubert, «tutte le specie delle piante si estendono in rami, si torcono in viticci; prolungando le loro punte si schiudono in ventagli […] Antonio crede di scorrere un bruco tra due foglie: ed ecco una farfalla che si invola. Sta per pestare un ciottolo: ecco la cavalletta che si spicca[…] e piante si confondono con pietre; e sassi con cervelli; e stalattiti con seni; e fiori metallici con tappezzerie dipinte a figure. Insetti senza stomaco si cibano; felci secche fioriscono; membra amputate ricrescono. Scorge infine piccole masse globulose, non più grandi di una testa di spillo, cigliate tutt’intorno. Un continuo vibrare le agita». E in questo fermentare di vita, oltre Flaubert in Mastroianni, un’arnia di arpeggi perlati ronza di musiche, dalle cui note sbocciano colori, simili ai piumaggi variopinti, alle stoffe cangianti, alla Maestà delle forme artificiali, che alla nostra esistenza ingrigita, come nel Caosmo immemoriale, additano le luci lontane che precorrono le spiagge d’oro orlate di cespugli aromati e di palme. CAOSMO nel catalogo della mostra L’atelier di Mastroianni, Cartoni  e Sculture dallo Studio dell’Artista, Palermo 2012.

Micol Forti

Scrivere su Umberto Mastroianni è obiettivo complesso, tanti e tanto sapienti sono stati gli studi storici e critici che hanno accompagnato e seguito la sua fertile attività. Ancor più complesso in occasione di una mostra che, sebbene senza eccedere nel numero, offre al visitatore un ampio ventaglio della sua articolata produzione, dagli esordi figurativi alle prime sculture astratte, dai rilievi alle sculture policrome, inserendo la sua opera in un contesto storico-archeologico, evocativo e suggestivo come gli scavi di Ostia antica. Le opere figurative non possono e non devono essere assenti in una mostra monografica su Umberto Mastroianni. I suoi nudi, i suoi ritratti, i volti o i busti di giovani o di donne, non solo permettono di ripercorre gli anni della sua formazione, prima a Roma poi, dal 1926, a Torino, ma soprattutto consentono di ragionare intorno a una problematica sempre presente nell’arte scultorea, quella che Argan ha definito la più “arcaica” delle arti, ovvero il riferimento alla classicità e all’antico. Sarebbe un errore profondo e radicale, accostarsi alla scultura moderna con i parametri di quella antica: si mancherebbe del tutto l’obiettivo della sua comprensione. È quindi ancor più urgente valutare quale è il ruolo delle “vestigia” del nostro passato, nel momento in cui esse vengono richiamate in forma specifica ed esplicita, seppur in opere nelle quali è già consapevole ed evidente il rifiuto dei canoni codificati della tradizione. La posizione di Mastroianni, nel corso della sua lunga e fertile carriera, rimane coerentemente legata al valore sociale e civile della scultura, al suo ruolo pubblico e alla sua evidenza plastica, anche nel corso degli anni ’70 e nei decenni successivi, quando l’happening, la performance e l’Arte Concettuale ne disperdevano la fisicità o la Land Art rinunciava anche agli spazi urbani, in una costante smaterializzazione del concetto e dell’oggetto scultoreo. Nonostante la continua oscillazione tra scultura come monumento o come segno transeunte nel tempo; tra forma autonoma o frammento di un universo organico; tra linguaggio specifico o contaminazione espressiva con le altre arti, Mastroianni ha sempre promosso e coltivato la sua ricerca linguistica “sull’orlo della storia”, senza mai dimenticarne le implicazioni, i caratteri, i debiti. Ancor più significativa, dunque, la presenza delle sue opere all’interno del parco archeologico di Ostia antica, dove lo spazio urbano si intreccia con lo spazio domestico, il luogo pubblico con quello privato, la statuaria celebrativa con il decoro casalingo. Dove, cioè, i piani della realtà si conservano intatti nella loro stratificazione e complessità, dove cultura, società, ritualità, memoria non appaiono, perché non sono, separati ma elementi partecipi di un unico tessuto connettivo e spesso contraddittorio, a cui diamo il nome di storia […]. Micol Forti, Avventure pietrificate: la scultura di Umberto Mastroianni tra segno e storia, in Mastroianni ad Ostia Antica. Dalla Figurazione all’Astrattismo  e gli Emblemata dalla Collezione Ostiense, Ostia Antica, marzo – novembre 2013.

Marco Di Capua

[…]Fino al primo Ottocento non c’è stata distinzione tra arte libera e arti applicate. Dopo, tutto è stato più complicato. Quindi stiamo soltanto al secolo scorso: molti artisti del Novecento hanno prodotto gioielli nel corso della loro attività, l’elenco sarebbe lungo.Ma ci si chiede: cosa cercavano di ottenere mettendo in rapporto il proprio lavoro eminente con questa tipologia di creazioni? Un rimpicciolimento della loro opre ad ornamento, tanto da potersela portare o far portare addosso annullando qualsiasi barriera tra i passi dell’arte e quelli della vita? Una sua miniaturizzazione, impreziosita da un esercizio di bravura tecnica? Tutt’e due le ipotesi, credo, ma ne faccio una terza, osservando gli oridi Mastroianni. Credo che in essi si precisi più limpidamente – che brilli? – la radice formale di un pensiero estetico. Juan Mirò, per esempio, non so se abbia creato gioielli, non lo ricordo, ma ricordo che era figlio di un orefice e che tutta la sua pittura molto dovette non solo a vaghe effusioni del cuore ma alla dura lavorazione dei metalli: fusione, tornitura, battitura eccetera. Processo che chiama in causa il faticoso affiorare di tutte le arti, qualcosa che a che fare con una primaria volontà di stile. Capirai, siamo in un habitat che aMastroianni è congeniale, lui è stato un esploratore di tecniche, un confidente delle materie. “Artigiano dell’arte”, l’ha chiamato una volta Lorenza Trucchi.Tutta la feconda disseminazione mastroiannea di ori, rilievi policromi, piombi, arazzi, vetri e argenti sono riconducibili a un unico registro linguistico, quello della sua scultura-pittura. Come se il bersaglio fosse sempre lo stesso e cambiassero soltanto le angolazioni di tiro.Bracciali, anelli, orecchini, pendenti, spille, lastre, fibbie, qualche volta con smeraldi e brillanti incastonati come per dare occhietti luminosi a piccole armi, a marce di ruote dentate, in un’evocazione di stemmi e sigilli barbarici e in un remoto ricordo di fregi, tra lo scatto futurista e macchinoso e la scheggia tagliente. Aria arcaica? Mastroianni c’era portato, era quella che amava respirare di più. E la respirava meglio, a pieni polmoni, sulla scena di un qualche combattimento, cosicché anche gli ori appaiono come oggetti residuali di un misterioso processo di distruzione creativa, sensazione tanto più accentuata dal fatto che l’oro sa di eterno: è ciò che permane e non si altera, qualsiasi sia il movimento, l’azione, che vi restano impressi […]. Marco Di Capua, La scultura addosso, in Gli Ori di Mastroianni, MARTA maggio-settembre 2015.

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